Post-social, post-Google, post-umani?
🍀 Perbacco! #62 - Il futuro digitale è una questione di comunità (e sostenibilità)
C'è un termine che ormai fa parte di ogni presentazione, manifesto aziendale, strategia di marketing, piano editoriale e... newsletter come questa: community.
Siamo passati dal “creare contenuti” al “costruire community” nel tempo di un algoritmo. Se tutti parlano di community, cosa significa davvero costruirne una oggi?
Mentre brand e piattaforme inseguono like e reach, le persone si sentono sempre più disconnesse. E non metaforicamente: siamo più connessi che mai, eppure più soli, più scettici, più frammentati.
Un recente report firmato Vox Media e The Verge1 racconta molto bene questo paradosso: la promessa del digitale – connetterci – è stata in buona parte tradita. Ma forse possiamo ancora fare qualcosa.
Io sono Antonio Di Bacco, aiuto le aziende a ottenere risultati migliori tramite strategie di marketing efficaci e sostenibili e questa è una nuova puntata di Perbacco! - la newsletter che parla di sostenibilità, etica e strategie d’impresa.
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Buona lettura!
Testimonianze
Mi sono sempre piaciute le community, ma ben selezionate. Poche ma molto attive e soprattutto in linea con i miei interessi.
Un bel po’ di anni fa, era il 2006, mi trasferii a Torino senza conoscere nessuno in città.
Da un po’ di tempo avevo un account piuttosto attivo su Flickr dove condividevo le mie fotografie, ma su cui si stavano creando delle community molto attive nelle grandi città come Milano e Roma. A Torino nacque proprio mentre l’Italia vinceva i mondiali di calcio.
Si chiamava Diecicento, come il CAP di Torino. Ne divenni un membro molto attivo.
Da una manciata di appassionati di fotografia, dopo pochi mesi si trasformò in un gruppo affiatato che si scriveva quotidianamente online, ma che spesso si vedeva dal vivo, tra passeggiate fotografiche e aperitivi. Tant’è che il nostro motto era "Photo Party People".
Un gruppo di persone che si allargava e si cementava sempre di più, anche grazie a progetti folli come "Star for a Day": un pesce d'aprile inscenato per le vie del centro, con attori finti, bodyguard, paparazzi, una troupe improvvisata e centinaia di curiosi convinti di trovarsi davanti a vere star del cinema.
Un gioco collettivo che generava meraviglia e connessione, senza algoritmi né sponsorizzazioni (trovi qualche foto su questo mio post su LinkedIn).
Da quel gruppo sono nati sia legami di profonda amicizia, sia vere e proprie famiglie con tanto di figli e figlie.
Poi Flickr è crollata sotto i colpi di Instagram, e con lei è svanita anche Diecicento. Sono cambiati i social, gli algoritmi e molte altre cose attorno a noi.
La grande disconnessione
Secondo il report di The Verge-Vox Media intitolato “Remodeling the Internet”, oggi il 66% delle persone ritiene che la qualità delle informazioni stia peggiorando, rendendo difficile trovare fonti affidabili.
Il 55% afferma di affidarsi più alla propria community che ai motori di ricerca tradizionali per ottenere informazioni, mentre il 52% ha iniziato a usare chatbot AI o piattaforme alternative come TikTok al posto di Google.
I social non sono più piazze: sono diventati feed infiniti, pieni di pubblicità camuffate da post, e post camuffati da vite.
La relazione digitale è evaporata sotto il peso della performance.
Le decisioni di abbandonare il fact checking prese ultimamente dalle grandi multinazionali come Meta hanno ulteriormente abbassato i livelli di fiducia verso queste piattaforme.
Eppure, qualcosa si muove. Le persone stanno iniziando a migrare verso spazi più piccoli, più lenti, più significativi.
Gruppi su Discord, forum tematici, circoli locali, newsletter, eventi in presenza. Il digitale si sta riconfigurando attorno a ciò che è intimo, selettivo, autentico.
Non si cerca più viralità, ma senso. Non si misura la portata, ma la partecipazione.
Una questione di scala (e di cura)
La community torna a essere qualcosa che si costruisce nel tempo, che ha bisogno di confini, di regole, di moderazione.
Non si tratta solo di tecnologia che connette, ma di cultura che accoglie.
Le comunità piccole funzionano meglio: più empatia, più attenzione, meno rumore. Il valore di un contenuto non è più "quante persone lo vedono", ma quante relazioni riesce a generare.
Anche chi non partecipa attivamente – i cosiddetti lurker, definiti nel report anche digital introverts – è parte della community: legge, ascolta, osserva. E si sente incluso.
Nel frattempo, l’intelligenza artificiale ha invaso i feed, i risultati di ricerca e pure le community. Ma gli utenti cercano sempre di più autenticità, non automazione.
Solo il 14% degli utenti considera "molto utili" i risultati sponsorizzati su Google, e molti utenti mostrano crescente interesse per comunità in cui i contenuti siano autentici e non automatizzati.
La tecnologia può facilitare, ma non sostituire. Non si automatizza la fiducia. E senza fiducia, non c'è comunità.
Ho chiesto un parere su questo tema ad , Community Strategist e Marketing Manager e autore di .
Il gruppo grande è molto dispersivo, è difficile legare con le persone e conoscerle bene. Il grande inibisce e non ci dà punti di riferimento.
Le relazioni autentiche invece si costruiscono in piccoli gruppi.
Il piccolo aumenta la "densità", fa sfregare le persone tra loro più intensamente (come dice Douglas Atkin), come fossero sassi con cui accendere il fuoco.
Il fatto è che alle relazioni autentiche servono tempo e un po' di intimità.
Che sono le due parole più estranee al mondo social, dove tutto va alla velocità della luce e la “vicinanza” non esiste.
Lais de Oliveira (community manager e autrice del libro Hacking Communities) sostiene che i gruppi piccoli sono molto meglio dei social per creare intimità, perché c’è una forte correlazione tra spazio e cura.
Il piccolo crea un rapporto ottimale tra il numero di persone che vuoi mettere insieme e l'obiettivo che vuoi raggiungere.

Il caso Lush: disconnettersi per riconnettersi
E i grandi brand cosa fanno?
Nel 2021, Lush ha annunciato che avrebbe abbandonato Instagram, Facebook, TikTok e Snapchat, citando preoccupazioni legate ad algoritmi tossici, mancanza di moderazione e uso dei dati personali.2
Oltre tre anni dopo, quella scelta non sembra più folle. Anzi. Jack Constantine, Chief Digital Officer dell’azienda, ha dichiarato: “Siamo stati tra i primi a fare qualcosa che sembrava pazzo. Ora è il social media che sembra pazzo.”3
Invece di rincorrere visibilità, Lush ha investito nei propri canali: una newsletter con oltre 6 milioni di iscritti, un’app con 1,75 milioni di utenti e un sistema di notifiche geolocalizzate per riattivare il dialogo locale tra negozi e persone.
Ha fatto quello che tutti predicano ma pochi praticano: costruire una community vera, sostenibile, su canali proprietari. E lo ha fatto senza rinunciare al marketing, ma scegliendo con cura dove e come essere presente.
Meno feed, più fiducia
Le persone accettano la presenza dei brand nelle community, ma solo se portano valore. Contenuti utili, moderazione, supporto, esperienze reali. Chi entra in una community con spirito colonizzatore viene espulso. Chi entra con spirito cooperativo viene accolto.
Lush è un esempio di sostenibilità digitale d’impresa: meno dati, più relazione. Meno algoritmi, più vicinanza.
Quella nata da , che conosciamo personalmente sia io che Alessio, è un altro esempio di community che fa del rispetto, della fiducia e della qualità dei contenuti delle componenti imprescindibili su cui basare le relazioni.
Il futuro digitale non è fatto di nuove piattaforme, ma di nuove intenzioni. Non è questione di essere social, ma di essere presenti. Con rispetto, e con cura.
In un mondo che (s)crolla, forse vale la pena fermarsi. Guardare intorno. Forse la tua community è già lì. Basta solo decidere di esserci davvero.
Lavori in corso
Da qualche mese sto lavorando ad un progetto a cui tengo molto e ne parlo oggi visto il tema della puntata.
Un’idea nata l’estate scorsa e che con il passare dei mesi ha preso forma soprattutto grazie al contributo di altre persone, molte delle quali fanno parte proprio della community che ho citato poco fa, quella di .
Con loro condivido una visione: cambiare il nostro sistema economico per orientarlo verso la circolarità, il rispetto e l’etica e generare un impatto positivo su persone, aziende e pianeta.
Sono concetti a cui tengo e teniamo molto e che ho sentito l’esigenza di mettere in pratica in maniera concreta, anche diversa rispetto a quanto faccio qui su Perbacco!, per lavorare a stretto contatto con le aziende che vogliono innovare nel segno della sostenibilità.
Manca ancora poco al lancio del progetto, ma tra le cose definite già da tempo c’è il nome: si chiamerà Lymera.
Balene e carbonio: sogno o bufala?
Chiudiamo la puntata di oggi in mare aperto, con un pensiero alle balene che ho tratto da di .
Le balene catturano carbonio? Sì.
Lo fanno in due modi: affondando sul fondo oceanico dopo la morte, dove il carbonio nei loro corpi può restare intrappolato per decenni o secoli, e fertilizzando il plancton con i loro escrementi, stimolandone la crescita e l’assorbimento di CO₂.
Ci salveranno dal cambiamento climatico? Eh, no.
Anche ripristinando le popolazioni pre-caccia, il loro contributo resterebbe minuscolo: tra lo 0,0006% e lo 0,004% delle emissioni globali. Eppure c’è chi ha stimato un mercato del carbonio da mille miliardi di dollari, basato sul valore “potenziale” di ogni balena.
Suggestivo, ma poco utile. Proteggere le balene è giusto, ma non facciamone l’ennesima narrazione salvifica.
Il clima si cambia con scelte vere, non con metafore poetiche.
È tutto per questo numero di Perbacco! Se vuoi parliamone nei commenti.
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Se vuoi invece rispondere a qualche breve domanda su questa newsletter, puoi farlo da qui. Grazie!
Il report realizzato da Vox Media e The Verge, lo trovi qua. Hanno intervistato oltre 2.000 adulti statunitensi che rappresentano la popolazione degli Stati Uniti nel dicembre 2024. Mai visto un report così pieno di colori!
Avevo scritto di Lush ed in generale degli effetti dei social media sulle nuove generazioni, sul numero 18 di Perbacco!
Sui tre anni di Lush fuori dai social media ha scritto Marketing Brew.
Lush è un’esempio brillante di brand che incorpora e applica i propri valori fondanti, con coraggio e intenzione. È bellissimo leggervi insieme, Antonio e Alessio!
Sintesi perfetta (e come poteva essere altrimenti con voi due messi assieme? 😄)
Nella community che gestisco abbiamo fatto il passaggio multicanale e abbiamo notato come cambiano le cose a seconda della piattaforma di riferimento.
Telegram è quello che ci ha dato maggiori soddisfazioni, perché da là si sono create spontaneamente le microcommunity geolocalizzate che servono appunto a mantenere le relazioni umane.
Facebook rimane il nostro hub di riferimento, quello da cui tutto è partito. Ma da anni abbiamo visto come è più difficile lì creare un impatto emotivo (forse determinato dall'aumento e la diversificazione dei membri rispetto alla nicchia iniziale) ed è diventato più, come qualcuno ha detto, un "centro informazioni". Comunque non è da poco che le persone di rivolgano alla community per sapere cose, perché si fidano più delle persone che di generiche informazioni sul web, esattamente come avete detto voi.
In tutto questo, capire che le piattaforme possono lasciarti a piedi da un momento all'altro è fondamentale (siamo sempre all'erta sulla sparizione di Facebook, che continua a deluderci per il suo peggioramento continuo) e questo ci ha fatto capire come essere presenti su più canali identifica anche lo zoccolo duro di chi non fa problemi a spostarsi da uno all'altro per seguire le attività della community. Così come ci permette di individuare nuovi membri presenti altrove.
La nostra idea è che nel momento in cui decidi di entrare in contatto con noi, quale che sia il canale, sei parte della community: poi sta a te decidere se e come parteciparne.