Un usato tira l’altro
🍀 Perbacco! #65 - Numeri, motivi e generazioni a confronto nella corsa al riuso
Il mercato dell’usato, il "second hand", è passato da hobby nostalgico a fenomeno economico e culturale che piace, diverte e spesso, ma non sempre, fa pure bene al pianeta.
Dopo la scorsa puntata dedicata alle grandi piattaforme globali dai prezzi stracciati come Temu e Shein, oggi parliamo di seconda mano.
Io sono Antonio Di Bacco, aiuto le aziende a essere più sostenibili e questa è una nuova puntata di Perbacco! - la newsletter che parla proprio di sostenibilità, etica e strategie d’impresa.
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Partiamo da una visione che si ripete per me ogni sabato mattina.
Buona lettura!
Scene da un mercato qualunque
La riconosco subito, già da diversi metri di distanza.
Mentre mi avvicino al mercato rionale non lontano da casa mia, attorno alla bancarella che vende vestiti di seconda mano femminili, scorgo un vorticoso mulinare di mani a caccia dell’affare.
Occhi che scrutano in lungo e in largo misure e dettagli, mani che tirano fuori giacche, maglioni, camicie e pantaloni più o meno di stagione, ammucchiati alla rinfusa sul banco – tanto l’ordine durerebbe poco.
Si susseguono scambi di posizione ai tre angoli del tavolo con una determinazione degna di una marcatura stretta in una partita di basket.
È una danza informale fatta di strategie, intuito e istinto.
Scena familiare eppure emblematica: una piccola rappresentazione quotidiana di un fenomeno molto più grande.
Alla conquista del mondo
Se dal mercato rionale alziamo lo sguardo verso il mercato globale, lo scenario cambia scala, ma non direzione.
Secondo il report congiunto di BoF e McKinsey, il mercato globale dell’abbigliamento di seconda mano cresce cinque volte più velocemente rispetto al retail tradizionale, con un ritmo annuo del +15%.1
E non si tratta più solo di un fenomeno marginale: entro il 2028 il solo settore fashion potrebbe raggiungere un valore complessivo di 350 miliardi di dollari.
A spingere questa impennata ci sono vari fattori. Da una parte la necessità di fare economia, che non conosce stagioni. Dall’altra, una crescente sensibilità ambientale, anche da parte di chi non si considera propriamente un attivista climatico.
Il 64% dei consumatori statunitensi ha dichiarato di aver modificato le proprie abitudini di acquisto a favore di soluzioni più convenienti e sostenibili, e la tendenza sembra consolidarsi anche a livello europeo.
Il resale – così viene ormai chiamato nei report patinati – è diventato uno strumento per ottenere valore, non solo prezzo basso.
Circa il 60% dei consumatori considera infatti il second hand come l’opzione con il miglior rapporto qualità/prezzo.
L’Italia non è da meno
Anche nel nostro Paese qualcosa si muove, e non poco. Secondo i dati BVA-Doxa, nel 2024 il valore complessivo del mercato second hand italiano ha raggiunto i 27 miliardi di euro, pari all’1,2% del PIL nazionale.2
E se una volta il canale principale era la vendita diretta, tra mercatini e passaparola, oggi è il digitale a guidare la crescita: per la prima volta, il 54% degli acquisti second hand avviene online, superando quelli nei negozi fisici.
L’abbigliamento rappresenta uno dei segmenti più dinamici.
Stando ai dati pubblicati da Wallapop, negli ultimi anni la quota di second hand legata al fashion online è passata dal 22% al 43% del totale.3
Una crescita sostenuta da piattaforme sempre più intuitive, capaci di semplificare la compravendita e di rafforzare la fiducia tra utenti. È proprio questa fiducia, insieme alla facilità d’uso, a fare la differenza.
Naturalmente non mancano le ombre: la logistica resta spesso un punto critico, tra ritardi, costi e assenza di tracciabilità standard.
E la recente normativa europea DAC7, che impone obblighi fiscali anche ai venditori occasionali online, potrebbe frenare l’entusiasmo di chi vende per sfoltire l’armadio senza velleità imprenditoriali.
Strategie e piattaforme
Nel panorama internazionale, piattaforme come Vinted e Vestiaire Collective sono ormai protagoniste di primo piano.
Vinted, in particolare, ha quadruplicato i suoi utili nel solo 2024, confermando la forza del modello basato sulla compravendita digitale diretta tra utenti e dimostrando che il second hand può essere anche una macchina da business ben oliata.4
La chiave del successo sta proprio nel mix di tecnologia e user experience.
Agli algoritmi di matching per trovare subito il capo giusto e alle interfacce mobile-friendly si sommano strumenti per facilitare la fiducia reciproca, come recensioni, badge di affidabilità e opzioni di assicurazione.
Per migliorare ulteriormente, le piattaforme stanno investendo in intelligenza artificiale per ottimizzare la gestione degli inventari, personalizzare l’esperienza d’acquisto e ridurre i costi operativi.
Un’evoluzione che spinge anche i brand tradizionali a ripensare la relazione con il proprio usato, in un’ottica di customer lifetime value, cioè che guarda al valore totale generato da ogni cliente nel tempo e non solo alla prima vendita.
Alcuni marchi iniziano a vedere il second hand non più come un'anomalia da ignorare, ma come un'estensione naturale dell’esperienza del cliente.
Offrire piattaforme dedicate, incentivare il riacquisto o il ritorno dei capi usati, costruire filiere di riuso certificate: sono tutti modi per restare rilevanti in un mercato che cambia, coltivando relazioni più lunghe e profonde con i clienti.
Non si tratta più solo di vendere un prodotto, ma di presidiare l'intero ciclo di vita, valorizzando ogni interazione come un'opportunità di connessione e fiducia.

Hyper-recommerce
Per quanto virtuoso possa sembrare, il second hand resta pur sempre una forma di consumo, con i suoi pro e i suoi contro.
Da un lato offre una risposta accessibile a bisogni reali e sempre più diffusi, soprattutto in tempi incerti. Dall’altro, rischia di diventare una nuova forma di euforia da acquisto, legittimata dalla patina della sostenibilità.
È il fenomeno dell’hyper-recommerce5: l’idea che comprare molto, solo perché è usato e costa poco, sia automaticamente positivo.
Una distorsione che può annullare i vantaggi ambientali tanto quanto il fast fashion, solo con la differenza che ci sentiamo meglio nel farlo.
Meglio ripartire da una domanda semplice e non nuova per chi legge questa newsletter: ha senso comprarlo?
Distinguere tra scelta consapevole e impulso è già un piccolo cambiamento.
Generazioni a confronto
Le motivazioni che spingono al second hand variano – e non poco – a seconda dell’età. Secondo i dati di uno studio pubblicato nel 2024 sul Journal of Consumer Marketing, ci sono delle differenze generazionali da tener presenti:
La Gen X (1965–1980) è spinta soprattutto dal risparmio economico: il 78% cerca occasioni vantaggiose.
I Millennials (1981–1996) combinano attenzione al portafoglio e sensibilità ambientale, con il 63% che sceglie l’usato anche per motivi green.
La Gen Z (1997–2012), invece, vede il second hand come un gesto etico: il 69% lo fa per ridurre il proprio impatto climatico.
Tre approcci diversi, tutti legittimi e da considerare se si vuole costruire una comunicazione efficace e una strategia di prodotto coerente.
Va anche detto che si tratta pur sempre di dichiarazioni d’intenti. Si trasformano poi veramente in comportamenti d’acquisto reali?
Ci sono però ormai diversi studi che indicano che la Gen Z attribuisce grande importanza alle questioni ambientali, influenzando le proprie scelte di consumo e le decisioni professionali in base all'impegno ambientale delle aziende.6
Insomma: non sarà sempre vero, ma non è solo storytelling.
Pensare in modo circolare
Il second hand non è un atto di eroismo ecologico, ma può diventare una parte concreta di una nuova cultura del consumo.
Una cultura che non si limita a spostare il problema, ma prova a risolverlo partendo dalle abitudini quotidiane. Le nostre, prima di tutto.
Che sia per risparmio, moda o coscienza ambientale, poco importa. Ciò che conta è che ogni acquisto sia un gesto pensato.
Perché il vero lusso, oggi, potrebbe essere proprio quello: comprare meno, ma meglio.
I tacchi di Barbie
Uno studio scientifico realizzato da un gruppo di podologi australiani ha analizzato oltre 2.700 Barbie per capire come la postura del piede – piedi piatti o in punta da tacco 12 – sia cambiata nel tempo, precisamente dal 1959 al 2024.
Il risultato? Le Barbie che “lavorano” (astronaute, mediche, designer) tendono ad avere piedi piatti, mentre quelle “fashion” restano in posizione da tacco fisso.
Una trasformazione anatomica che riflette un cambiamento culturale: meno glamour da vetrina, più stabilità da vita reale. Lo studio, che non ha coinvolto o chiesto conferme al produttore Mattel, mostra forti correlazioni tra piede piatto, occupazione e diversità.7
Non è solo una questione estetica, ma un’indicazione su come la rappresentazione femminile evolve nel tempo.
Secondo i podologi autori dello studio, suggerisce anche che anziché demonizzare i tacchi per i possibili effetti a lungo termine sulla salute, potremmo fidarci del fatto che, come Barbie, le persone sappiano scegliere le scarpe giuste per il momento giusto.
P.S. Io rimango scettico sulle Barbie in generale, tanto che a casa mia l’unica Barbie esistente è quella regalata dai nonni (la classica falla nel sistema). È stata rinominata Barbara.
AI per tutti
Tra le newsletter che leggo più volentieri c’è anche di e . L’ultimo numero parla di Intelligenza Artificiale e di come andrebbe affrontata questa rivoluzione, specie dal punto di vista educativo.
Un breve estratto:
Gli studenti devono poter accedere agli strumenti che amplificano il loro potenziale cognitivo. I docenti devono essere formati per accogliere l’AI come estensione delle proprie capacità pedagogiche.
Dovremo imparare a pensare insieme all’AI: formulare domande significative, distinguere tra la plausibilità superficiale di una risposta e la sua effettiva accuratezza, coltivare le qualità umane – pensiero critico, creatività radicale, empatia – che rimangono il nostro vantaggio competitivo più duraturo.
Ci serviranno nuove metriche di valutazione: se l’AI può fare i compiti e le verifiche, bisogna cambiare i metodi, non punire gli studenti. Le competenze digitali non saranno una materia a sé, ma una dimensione trasversale che riguarda tutti gli ambiti di apprendimento.
L’inclusione passa anche da politiche attive per l’integrazione e l’uso corretto dell’AI nelle scuole e per chi dovrà riqualificarsi per trovare posto in questo nuovo mondo in continua evoluzione.
È tutto per questo numero di Perbacco! Se vuoi parliamone nei commenti.
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Se vuoi invece rispondere a qualche breve domanda su questa newsletter, puoi farlo da qui. Grazie!
Il report di McKinsey intitolato “The State of Fashion 2025: Challenges at every turn” si trova qui.
I dati del report di bva-Doxa sul mercato dell’usato in Italia sono stati pubblicati qui.
Il report di Wallapop qui.
L’articolo sui risultati economici di Vinted è stato pubblicato su Fashion Network.
Lo studio di Calvo-Porral intitolato “Un'analisi intergenerazionale degli acquisti online di seconda mano: confronto tra GenX, millennial e GenZ” è disponibile qui.
Alcuni deli studi internazionali che indicano una maggiore sensibilità delle nuove generazioni, in aggiunta al già citato report McKinsey, sono:
l’Indagine GlobeScan 2022 per IKEA
il Deloitte Global 2024 Gen Z and Millennial Survey
la European Investment Bank (EIB) Climate Survey
Dello studio su Barbie ha scritto il New York Times (paywall) ma si può leggere per intero anche qui.
Anzi, il lavoro che fai qui illumina meglio ogni argomento 🙂. E come dici diventare consapevoli è la chiave di tutto.
Il tuo è un punto di osservazione sempre puntuale, Antonio. Grazie per questa puntata sulle cose di seconda mano, con le sue luci e ombre.