Sfashion. L'industria della moda
👨🏻💻 Perbacco! #22 - L'impatto del settore tessile sul pianeta e le misure per contrastare il problema
Ciao! Io sono Antonio Di Bacco, consulente di strategia, marketing e comunicazione. Questa puntata di Perbacco! è dedicata la mondo del fashion. Argomento spinoso, complesso e vastissimo, per cui ho cercato di sintetizzare il più possibile. Buona lettura!
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite l’industria della moda è tra quelle che inquinano di più al mondo. Produce dall’8% al 10% di tutte le emissioni globali di CO2 ed è responsabile del 20% dei consumi globali di acqua. Servono 10.000 litri di acqua per produrre 1 kg di cotone per un paio di jeans, tanto quanto una persona riesce a bere in circa 10 anni!
A tutto questo si aggiungono i problemi derivanti dall’impiego di prodotti chimici, tra cui i famigerati PFAS, e delle microplastiche (leggi poliestere) nella realizzazione dei capi d’abbigliamento. Tutte sostanze che finiscono nei terreni, nelle falde acquifere, nei mari ed oceani e quindi nel nostro organismo. Se consideriamo anche le condizioni di lavoro in molte delle fabbriche tessili asiatiche il quadro è piuttosto inquietante.
Lo ha testimoniato anche il rapporto di Greenpeace Germania che ha indagato sulle pratiche messe in atto da Shein, azienda cinese regina dell’ultra-fast fashion. Ne è seguito il goffo tentativo di Shein di ripulirsi l’immagine invitando nelle proprie fabbriche alcune influencer statunitensi, con risultati ben poco positivi.
Documentare gli impatti
Ad aprile è uscita Junk - Armadi pieni, una docuserie prodotta da Sky e Will Media che racconta molto bene come funziona il sistema moda e quali impatti ha nel mondo documentando quello che succede in Cile, Ghana, Bangladesh, Indonesia, India, oltre che in Italia.
Se non l’hai ancora fatto ti consiglio vivamente di guardarla su Sky o su YouTube. Trovi in questo sito tutte le informazioni.
Nel porto di Iquique, in Cile, arrivano ininterrottamente navi container zeppe di vestiti e accessori di seconda mano o semplicemente resi dai clienti dopo l’acquisto. Capi per adulti, bambini, estivi o invernali, compressi in balle da 45 kg vendute a 4,5 euro ai piccoli commercianti locali che sperano di trovarci dei capi rivendibili al mercato locale in modo da mandare avanti le proprie famiglie.
Una vera e propria economia di sussistenza distorta che dimostra la complessità e gli amari risvolti del sistema attuale.
Ciò che è invendibile, gli scarti degli scarti, finiscono nel deserto di Atacama. Colline di vestiti accatastati, per gran parte ricoperti ora di sabbia dall’amministrazione locale per far fronte ai numerosi incendi divampati su questi cumuli e alla carenza di acqua.
Al Kantamanto Market di Accra, in Ghana, si contano ogni giorno 15 milioni di vestiti. Inizialmente venivano chiamati Obroni wawu, cioè “I vestiti dell’uomo bianco morto.”
Secondo gli usi locali i vestiti venivano dismessi solo dopo la morte di una persona. Difficile immaginare che invece tutta quella roba arrivava dagli armadi pieni di gente viva e vegeta e dall’acquisto compulsivo. (Qui trovi un bel progetto multimediale incentrato proprio sul concetto di Obroni wawu.)
Se facciamo un passo indietro verso la produzione arriviamo in Bangladesh, dove le cose non sono cambiate molto rispetto a 10 anni fa quando il crollo del Rana Plaza provocò oltre 1.000 vittime.
Salari bassissimi, condizioni di lavoro pessime, normative scadenti e assenza di controlli statali posizionano questo paese al primo posto al mondo per le peggiori condizioni di lavoro secondo il Global Right Index.
Soprusi che si verificano anche in Indonesia e in India per la produzione rispettivamente della viscosa e del cotone.
Intere foreste vengono sacrificate e sottratte alla popolazione di Sumatra per far posto a monocolture intensive di eucalipto, dalla cui cellulosa si ricava la viscosa.
Gli agricoltori indiani sono ormai messi sotto scacco dalle grandi industrie chimiche come la Monsanto. Costretti a riacquistare ad ogni stagione i semi geneticamente modificati che aumentano sì il raccolto di 3 o 4 volte, ma che non possono essere ripiantati l’anno successivo. I margini si assottigliano fino a diventare debiti non più sostenibili che portano al suicidio in migliaia di casi documentati ormai da anni.
In Europa e in Italia uno dei problemi più rilevanti è l’inquinamento da PFAS, come dimostrato anche dall’’inchiesta pubblicata da Le Monde e altri media partner.
Junk - Armadi pieni è un viaggio tra le storture e i paradossi del sistema. Jeans messi sul mercato slavati per soddisfare i gusti della clientela occidentale (a caro prezzo anche per l’ambiente) che quando arrivano in Ghana vengono ricolorati a mano con l’indigo perché altrimenti, così ridotti, nessuno li comprerebbe. Bambini che rovistano tra scarti e rifiuti di ogni genere per guadagnare qualche soldo sognando di comprare proprio quei capi firmati che sono alla base della devastazione del proprio territorio.
Districare la matassa
Il 5 luglio scorso la Commissione Europea ha votato a favore della direttiva che chiede che i produttori siano responsabilizzati per l'intero ciclo di vita dei prodotti tessili attraverso uno strumento chiamato EPR (Extended Producer Responsibility).
I brand dovranno pagare una quota per ogni prodotto creato da destinare alla gestione degli scarti tessili, più alta nel caso in cui il tessuto utilizzato non è degradabile o riciclabile. La proposta della Commissione Europea vuole inoltre rendere illegale l’esportazione di rifiuti tessili in paesi che non sono in grado di gestirli e smaltirli.
Alcuni stati si stanno già muovendo in autonomia per affrontare i problemi del tessile. L’Olanda ha già fatto sua la Extended Producer Responsibility definendo precisi indicatori per monitorare il riuso e riciclo. Almeno il 50% dei capi venduti dovrà essere progettato per il riuso e/o riciclo.
Il governo francese ha appena annunciato il “bonus réparation” (“bonus rammendo”) che consentirà di richiedere un bonus tra i 6 e i 25 euro ogni volta che si sceglie di far rammendare un proprio indumento in una sartoria o calzoleria che aderisce al programma invece di buttarlo via.
Il ruolo delle aziende
Esiste da tempo la Sustainable Apparel Coalition, un'alleanza globale che ha come scopo “sviluppare soluzioni sostenibili che ridefiniscono l'industria”. Al suo interno ci sono aziende che fanno del fast fashion la ragione del proprio successo (come Inditex e H&M) per cui è difficile aspettarsi progressi in tempi rapidi.
Tra le altre aziende c’è pure Patagonia, paladina della sostenibilità per il pianeta (ne ho scritto anche io qui su Perbacco!), che nelle scorse settimane è stata oggetto di un’indagine giornalistica realizzata da Follow the money (qui l’originale, mentre qua la trovi in italiano).
L’accusa, piuttosto clamorosa, è di produrre nelle stesse fabbriche che lavorano per i brand del fast fashion. Nella replica Patagonia vuol far intendere che da sola non può cambiare le regole di un settore globale e che far parte del sistema e rifornirsi proprio da quei paesi che non offrono particolari garanzie ai lavoratori, sia l’unico modo per far progredire le condizioni di sicurezza e il salario di chi lavora in quelle fabbriche.
Servirebbe di certo aumentare il livello di trasparenza sulle policy e le pratiche messe in atto nel settore e sugli impatti sui diritti umani e sull'ambiente. E’ quello che monitora ogni anno il Fashion Transparency Index. L’ultimo report del 2023 conferma che le aziende fanno ancora poco in tal senso.
Le normative comunitarie e quelle dei singoli stati possono accelerare il processo. Noi come cittadini e consumatori possiamo sostenere e firmare petizioni come quella di Good Clothes Fair Play per invitare la Commissione Europea a introdurre una legislazione che incrementi le garanzie per chi lavora nel settore dell’abbigliamento, tessile e calzaturiero.
Ma possiamo soprattutto adottare comportamenti di consumo più sostenibili e dimostrare che l’uomo bianco è vivo e responsabile.
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👓 Spunti e appunti
L’azienda californiana Allbirds ha lanciato la prima scarpa al mondo a zero emissioni di CO2 fatta di lana coltivata in modo rigenerativo. Comincia a pensare all’inverno su!
Nestlé ha invece deciso di rimuovere dai propri prodotti tutte le dichiarazioni di “carbon neutrality” per concentrarsi invece sull’effettiva diminuzione delle emissioni nocive. Tagliare è meglio che compensare.
Passare nei tornelli della metro di Parigi e generare energia come se fossero delle turbine eoliche. Per ora è un progetto pilota di Iberdrola.
L’amministrazione della regione di Bruxelles imporrà dal 2024 ai grandi supermercati di donare il cibo invenduto per combattere l’inflazione e ridurre gli sprechi.
Fast food: gli investitori chiedono limiti all’uso di antibiotici.
Ho scoperto l’esistenza delle mosche soldato nere e che si applicano fior di tecnologie per automatizzarne l’allevamento e produrre mangimi.
Alcuni attivisti, per invitare il premier britannico Rishi Sunak a fare di più per contrastare l’emergenza climatica, hanno inciso sulla sabbia della spiaggia di Skegass una cartolina di 150 metri.
🎈E per finire in leggerezza…
Un consiglio per le letture estive. Un libro che mi ha fatto emozionare e sgranare spesso gli occhi quando l’ho letto: L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander Von Humboldt, l'eroe perduto della scienza. Edito da Luiss University Press (se riesci cerca di comprarlo in una libreria fisica e non sul famoso store online 😉).
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