L'araba felice e le promesse rinnovabili
👨🏻💻 Perbacco! #32 - Transizioni energetiche di lusso, piani al ribasso e chi bada ai fatti più che alle parole
Qualche mese fa, in piena estate, mi ha contattato una head hunter dagli Emirati Arabi. Aveva visto il mio profilo su LinkedIn e ha pensato bene di propormi una posizione di Digital Marketing Manager. All’inizio l’ha presa un po’ alla lontana, scrivendo che stava cercando qualcuno per “uno dei principali enti governativi del paese con sede ad Abu Dhabi per un evento di alto profilo”.
Sono curioso come una scimmia e rispondo praticamente a tutti, a parte i soliti spammer asiatici che mi vogliono rifare il sito (forse a ragione), perciò ho dato l’ok a ricevere maggiori informazioni.
Come prevedibile, si trattava di un incarico per la COP28 conclusa qualche giorno fa proprio negli Emirati. Ad essere più precisi per l’UAE Climate Change Special Envoy, cioè proprio per l’ormai famoso sultano Al Jaber che ha gestito l’intero evento, tra proclami ad effetto e gaffe dietro le quinte.
In oltre 20 anni di lavoro, pur mantenendo un filo conduttore, ho sempre messo occhi, mani ed orecchi dentro progetti e aziende dei settori più disparati, un po’ come faccio anche in questa newsletter. Non ce la faccio proprio a stare nella mia comfort zone, come si dice in questi casi.
Detto questo, avrei fatto una certa fatica a sentirmi a mio agio in una posizione del genere, pur se i lauti compensi danno sempre da pensare. A togliere subito le castagne dal fuoco ci ha pensato una domanda secca di carattere personale: ha famiglia? Sorvolo sull’opportunità della domanda, ma in ogni caso è servita a chiudere subito la conversazione.
Benvenuta, benvenuto, io sono Antonio Di Bacco e questo è il trentaduesimo numero di Perbacco! - la newsletter su sostenibilità, etica, marketing e comunicazione. Se non lo sei già, puoi iscriverti da qui:
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Futuri lussuosi
Non è la prima volta che ricevo proposte dalla terra degli Emiri, perciò col tempo ho approfondito un po’ come funziona quel paese e cosa significherebbe vivere lì.
Popolazione sostanzialmente stratificata con “classi” poco permeabili. I cittadini arabi rappresentano solo l’11% del totale, mentre il 90% sono stranieri. Una piramide molto schiacciata, con in alto gli arabi, quelli nelle posizioni di spicco all’interno dello Stato e nelle aziende. Poi gli ex-pat che provengono da paesi occidentali, chiamati ad assumere incarichi di responsabilità nelle aziende locali per farle crescere rapidamente e trasferire know-how ai più giovani arabi, magari appena tornati dagli studi all’estero nelle più prestigiose business school.
Nella parte più bassa della piramide ci sono quelli che fanno i lavori più umili. Provengono spesso da India, Pakistan o Bangladesh e fanno una vita di sacrifici con ben poche sicurezze e diritti. Difficilmente si vedono nelle cartoline da Dubai.
Lo Stato fa grandi investimenti sull’industria del turismo (hai presente le Palm Islands?), dell’intrattenimento (parchi divertimento come il Ferrari World Abu Dhabi), dell’edilizia (il grattacielo più alto del mondo, un colosso da 829,80 metri), ma anche su altri settori considerati strategici come quello della difesa e quello aerospaziale.
Praticamente tutti gli investimenti passano per il fondo sovrano denominato Mubadala, la società statale interamente di proprietà del governo, il cui obiettivo è “accelerare la trasformazione dell'economia degli Emirati Arabi Uniti costruendo campioni nazionali di livello mondiale, promuovendo vivaci cluster industriali e commerciali e collaborando con entità globali di livello mondiale.”
In sostanza, sapendo bene che le fonti fossili dovranno necessariamente cedere il passo ad altre fonti di energia nei decenni a venire, gli Emirati non vogliono perdere potere economico e politico e stanno programmando da tempo quel transitioning away di cui si è tanto parlato negli ultimi giorni in seguito all’accordo finale raggiunto alla COP28.
Qualcosa di simile fa l’Arabia Saudita. Emblematico il progetto NEOM, che mette assieme hotel e strutture di “ecoturismo di lusso”, un ecosistema industriale “avanzato e pulito, basato su industria 4.0 e principi della circolarità” e una città definita un “capolavoro architettonico a specchio”(tanto che potrebbe essere una trappola per gli uccelli migratori che ci andrebbero a sbattere). Alta 500 metri, larga 200m e lunga ben 170 km, concepita per ospitare 9 milioni di abitanti ed essere ad emissioni nette zero.
Programmi di sviluppo che guardano al futuro seguendo una propria visione e idea di sostenibilità (di lusso), potendo contare su enormi disponibilità finanziarie. Ma non per tutti è così. Come ha scritto bene Ferdinando Cotugno nella newsletter
:La narrazione sui petrolieri è facile se ci concentriamo su Paesi come l’Arabia Saudita, tanto ricchi quanto spietati nella difesa dei propri interessi. Ma diventa più complesso se guardiamo a un altro Paese OPEC, che si è opposto al phase-out quanto l’Arabia Saudita: l’Iraq. Un Paese devastato da decenni di guerra, con un quarto della popolazione sotto la linea di povertà, e completamente dipendente dal petrolio.
Che futuro proponiamo a Paesi come l'Iraq e ai 98 Paesi in via di sviluppo che producono petrolio?
E’ questo uno dei maggiori dilemmi da affrontare. Sarà necessario collaborare, avere una visione sistemica che tenga conto degli obiettivi climatici da raggiungere e dei fondi a disposizione dei singoli Stati. Visioni e problemi finanziari che invece non hanno le maggiori aziende petrolifere.
Tra il dire e il fare
Grazie a fior di inchieste, sappiamo per certo che quelle che Enrico Mattei definì sette sorelle (ora diventate quattro in seguito a fusioni e acquisizioni - Shell, BP, Chevron, Exxon Mobil) sanno fin dagli anni ‘70 degli effetti tossici su ambiente e persone provocate dai combustibili fossili. Nonostante ciò fanno di tutto per ostacolare il progresso e il processo, portare ai tavoli di negoziati orde di lobbisti, lanciare campagne pubblicitarie di superficie.
La situazione a volte sfugge talmente di mano che lo scorso luglio il capo delle rinnovabili di Shell, cioè colui che doveva guidare la transizione, si è dimesso perché di rinnovabile c’è ben poco nei nuovi piani della società che ritrattano quanto detto in precedenza. Stessa cosa per BP che a febbraio scorso ha annunciato ricavi da record, ma allo stesso tempi ha ridimensionato i piani di riduzione della quantità di petrolio e gas prodotti entro il 2030.
Chevron ha da poco annunciato l’acquisizione dell’ennesima azienda petrolifera per 53 miliardi di dollari, dopo che Exxon Mobil aveva fatto lo stesso per un’altra acquisizione simile spendendo ben 60 miliardi di dollari. Il bluff continua per tutte.
Eppure anche in questo settore esistono esempi che fanno capire che se si vuole si può effettivamente cambiare strada. Parliamo di ERG (Edoardo Raffinerie Garrone), gruppo industriale italiano con sede storica a Genova.
Se non sei così giovane come me, forse ricorderai questo nome scritto sulla maglia da calcio con cui Mancini e Vialli conquistarono lo scudetto con la Sampdoria nel ‘91. L’insegna campeggiava su molte stazioni di servizio della penisola in quegli anni.
Dal 2008 è iniziato il processo di cambiamento che, in pochi anni, ha portato ERG a uscire completamente dal settore petrolifero per entrare nelle rinnovabili. Ad ottobre si è perfezionato l’accordo per cedere l’ultimo impianto a gas di sua proprietà.
Una trasformazione graduale ma profonda che le ha consentito di diventare il primo operatore eolico in Italia e tra i primi 10 in Europa, con una quota crescente di impianti solari installati in Italia e all’estero. Il piano strategico aziendale 2022-2026 è incentrato sugli obiettivi in termini di ESG (Environmental, Social e Governance) e sul raggiungimento delle emissioni zero entro il 2040. I risultati economico-finanziari e il dettaglio degli investimenti dimostrano la strada già percorsa.
Un caso che conferma che la transizione e l’abbandono delle fonti fossili non è una chimera. Servono certamente risorse, ma soprattutto un’attenta pianificazione strategica e capacità manageriali, condite con almeno un pizzico di senso etico.
👓 Spunti e appunti
Quanta acqua mangiamo al giorno? Cambiare prospettiva aiuta a vedere meglio i problemi. (thewaterweeat.com, sito fatto benissimo!)
Sfruttare le foglie cadute per creare carta biodegradabile e riciclabile senza abbattere gli alberi. Una startup ucraina geniale anche nel nome: Relief. (GreenMe)
Lo strategic thinking (pensiero strategico) come strumento per crearsi la vita dei sogni secondo l’Harvard Business Review.
Galline che tornano a fuggire: il film d’animazione che denuncia l’orrore degli allevamenti avicoli. (GreenMe)
A differenza di quello che dice l’industria biotech, le piante OGM potrebbero non essere la soluzione al cambiamento climatico. (The Conversation)
Il commercio equo e solidale non se la passa bene. I motivi della crisi (Il Post)
I giornali rivestono un ruolo determinante nella lotta per il clima. Il programma in sei punti di una delle testate più attente al tema: The Guardian.
🎈E per finire in leggerezza…
La mia iniziativa per Natale: una sessione di coaching per realizzare il Marketing Check-up. Ti accompagno in un breve percorso di analisi per arrivare alla fine ad avere un report che ti servirà nell’impostare le attività dei prossimi mesi.
Tutto gratis. Solo un invito. Se ricevuto il report pensi che la sessione sia stata utile, ti invito a fare una donazione ad un ente di beneficienza di tua scelta per una somma che deciderai tu. (Ferragni scansati!)
Qui sotto vedi l’immagine che ho pubblicato su LinkedIn, dove trovi tutti i dettagli.
In ogni caso…Auguri!
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